Uno studio italiano fotografa impatto sindrome e differenze
Quando nel 2020 l’onda del primo tsunami di malati gravi di Covid si è ritirata, erano in molti a sperimentare la totale assenza di olfatto per lunghi mesi. Poi sono arrivate le varianti di Sars-CoV-2 e qualcosa è cambiato. Con l’Alfa molti meno parlavano di questo sintomo così caratteristico del nuovo coronavirus, e molti di più condividevano invece l’esperienza di dolori, nebbia mentale, ansia e depressione. E così via, a ogni variante il suo Long Covid: a suggerirlo è uno studio italiano che mostra anche come a essere più colpite da sindromi post infezione sono le donne, quasi il doppio degli uomini. Mentre a sorpresa le persone con diabete di tipo 2, fra le più duramente colpite dal virus, sembrano meno a rischio di lunghe sequele.
La nuova ricerca sarà presentata al Congresso europeo di microbiologia clinica e malattie infettive (Eccmid), in programma ad aprile a Lisbona, in Portogallo. Michele Spinicci e colleghi dell’università degli Studi di Firenze e dell’Azienda ospedaliero universitaria Careggi suggeriscono che i sintomi legati al Long Covid potrebbero essere dunque diversi nelle persone che sono contagiate con diverse varianti. Le stime indicano che oltre la metà dei sopravvissuti all’infezione da Sars-CoV-2 sperimenta sequele nella fase post acuta di Covid. La condizione di Long Covid può colpire chiunque: anziani e giovani, sani e con malattie preesistenti. E’ stata osservata in persone ricoverate in ospedale e in quelle con sintomi lievi.
Nonostante cresca la letteratura sulla malattia, il Long Covid rimane poco compreso, riflettono gli autori. Il lavoro condotto è uno studio osservazionale retrospettivo che ha coinvolto 428 pazienti – 254 (59%) uomini e 174 (41%) donne – trattati nell’ambulatorio post-Covid del Careggi tra giugno 2020 e giugno 2021, quando il virus originario e la variante Alfa stavano circolando nella popolazione. I pazienti presi in esame erano stati dimessi dall’ospedale 4-12 settimane prima di presentarsi al servizio ambulatoriale per la visita e di completare un questionario sui sintomi persistenti (mediana di 53 giorni dopo le dimissioni). Inoltre, dalle cartelle cliniche elettroniche sono stati ottenuti dati sull’anamnesi, sul decorso microbiologico e clinico di Covid e sui dati demografici dei pazienti.
Circa tre quarti, il 76% (cioè 325 su 428), hanno riportato almeno un sintomo persistente. I sintomi più comuni riportati sono stati mancanza di respiro (37%) e affaticamento cronico (36%) seguiti da problemi di sonno (16%), problemi visivi (13%) e nebbia cerebrale (13%). Le analisi suggeriscono che le persone con forme più gravi, che hanno richiesto l’uso di farmaci immunosoppressori come tocilizumab, avevano 6 volte più probabilità di riportare sintomi di Long Covid. Chi ha ricevuto un supporto di ossigeno ad alto flusso aveva il 40% in più di probabilità di avere problemi di lungo corso. Le donne avevano quasi il doppio delle probabilità di riferire sintomi di Long Covid rispetto agli uomini. I pazienti con diabete di tipo 2 sembravano avere un rischio inferiore. Gli autori precisano che sono necessari ulteriori studi per comprendere meglio questa scoperta inaspettata.
Nell’ambito della ricerca è stata eseguita una valutazione più dettagliata, confrontando i sintomi segnalati dai pazienti infetti tra marzo e dicembre 2020 (quando era dominante il virus originale) con quelli segnalati dai pazienti infetti tra gennaio e aprile 2021 (quando l’Alfa era la variante dominante), ed è così che si è scoperto un cambiamento sostanziale nel modello dei problemi neurologici e cognitivi/emotivi sperimentati nel post Covid. I ricercatori hanno rilevato che, quando a dominare era Alfa, la prevalenza di mialgia (dolori muscolari), insonnia, nebbia cerebrale e ansia/depressione aumentava significativamente, mentre l’anosmia (perdita dell’olfatto) e disgeusia (difficoltà a deglutire), così come i problemi di udito erano meno comuni.
“Molti dei sintomi riportati in questo studio sono stati misurati, ma questa è la prima volta che sono stati collegati a diverse varianti”, fa notare Spinicci. Gli autori riconoscono che lo studio è stato osservazionale e non dimostra causa ed effetto, ma accende i fari su un problema non di poco conto. “La lunga durata e l’ampia gamma di sintomi – conclude Spinicci – ci ricordano che il problema non sta scomparendo e che dobbiamo fare di più per supportare e proteggere questi pazienti a lungo termine. La ricerca futura dovrebbe concentrarsi sui potenziali impatti delle varianti preoccupanti e sullo stato della vaccinazione sui sintomi in corso”.