«Siamo delle polveriere. Lo diciamo da un mese: non abbiamo dispositivi di protezione, non ci concedono i tamponi, ci invitano a non ricoverare. Alle nostre insistenti ricerche rispondono burocrati. A quanto pare i vecchi non contano». Così scriveva su Facebook qualche mese fa un medico di una delle strutture per anziani vicino Bologna.
Il focus contiene tutti gli ingredienti per una tempesta perfetta. E, in effetti, la tragedia che si è abbattuta sulle residenze per anziani ci ha sconvolti e colpiti in maniera drammatica. È tra le pagine più tristi di questa pandemia. E giustamente si grida allo scandalo, se si guarda qualche grande istituto per anziani. In questo tempo del coronavirus, a dire il vero, molte Rsa (residenze sanitarie assistenziali) sono state abbandonate a loro stesse.
Gli anziani e gli stessi operatori non hanno avuto l’aiuto necessario per fronteggiare l’emergenza; diversi operatori sanitari sono stati colpiti dal coronavirus e molti, molti anziani sono morti. Non sono mancate neppure decisioni sbagliate come, ad esempio, la delibera di inizio marzo in Lombardia che ha chiesto alle Rsa di accogliere Covid-19 positivi e pazienti negativi che venivano dimessi dagli ospedali. E purtroppo qualcuno ha anche sostenuto che l’età è il discrimine tra la cura o l’abbandono, ovviamente tutto a scapito degli anziani. Appunto, da scartare. È una vicenda che richiede più di una riflessione per comprendere quanto sta accadendo e soprattutto per individuare un futuro nuovo da intraprendere. Una prima riflessione mi porta a dire che quanto sta avvenendo negli istituti per anziani evidenzia una contraddizione antica, che mette in questione il modo con cui ci prendiamo cura dei nostri anziani.
È vero che abbiamo conquistato una vecchiaia per la gran parte della popolazione, ma poi rischiamo di non saperla né affrontare con cura e attenzione, né valorizzarla per la ricchezza che rappresenta per le famiglie e per la società stessa. Gli anziani sono un patrimonio prima che un peso. Al contrario, è frequente il rischio di scartarli, di metterli da parte.
Il tema delle «case di riposo» – una ulteriore riflessione da fare – mi sta molto a cuore. Direi che già la definizione è fuorviante. Sono piuttosto «case di fatica», dove spesso vivere è duro e pesante.
È vero che rispondono a un bisogno reale e in tante di esse gli anziani sono tenuti con cura e attenzione. E c’è anche una circolarità virtuosa con il volontariato. Ma quel che sta accadendo nelle Rsa in questo tempo di coronavirus mostra l’urgenza di ripensare l’intera prospettiva della cura degli anziani. Le tragiche dimenticanze a cui ho accennato all’inizio – e che la stampa sta evidenziando con crudezza –
Tra i tanti esempi, molti drammatici, mi viene in mente la dimenticanza di queste istituzioni relativamente alle decisioni circa il distanziamento sociale: sono state chiuse le scuole e le università, abolite le partite di calcio, i pranzi e le cene al ristorante, sono state fermate molte attività lavorative, persino interrotto le funzioni religiose, vietato ogni tipo di assembramento, mentre le case di riposo e le Rsa sono state trasformate in luoghi di accoglienza per altri malati, altrettanto anziani e fragili. E sono diventate un focolaio di contagio e di morte. Ancora una volta: dobbiamo sentire maggiormente la responsabilità di prenderci cura degli anziani.
Mi sono tornate in mente le parole che don Oreste Benzi più volte ripeteva di fronte a tanti esempi di anziani abbandonati negli istituti: “Dio ha creato la famiglia, gli uomini gli istituti”. Sono passati decenni da quando don Oreste pronunciò queste parole. C’è bisogno di un sussulto forte e rapido. Tanto più che stiamo vedendo che il tasso di letalità per le persone ultraottantenni è superiore al 28%, e che solo il 5% dei primi 10.000 morti aveva meno di 60 anni. Conosciamo la capacità infettante di questo virus. E tuttavia abbiamo lasciato che si diffondesse proprio nei luoghi che concentrano le sue vittime designate.
A me pare che dobbiamo iniziare già da ora a ripensare il sistema di questi istituti. E credo nell’ottica di una loro graduale scomparsa. Nel prossimo futuro dobbiamo creare le condizioni perché la cura degli anziani li raggiunga nelle loro case: è più efficace, più economica e più sicura, consapevoli che la “casa” resta il centro della loro rete di protezione sociale e umana. Certo, questo comporta che l’intera società se ne faccia responsabile. Non si può lasciare la soluzione alle sole famiglie, gravate già da innumerevoli problemi. Si richiede una politica famigliare che venga effettivamente incontro alle famiglie. E le stesse famiglie debbono essere aiutate a riscoprire la ricchezza e la forza dei legami familiari. Questo tempo è opportuno per comprendere meglio la forza dei legami umani.
Dobbiamo tener conto, inoltre, che il tasso di invecchiamento in Italia è il più alto d’Europa e che siamo il secondo paese più anziano al mondo. Le famiglie vanno sostenute, come ho appena detto, in maniera più attenta e lungimirante. Senza dimenticare peraltro che il 33% delle famiglie è monocomponente, che oltre il 50% è composto da due persone o meno. Solo il 5% ha 5 o più componenti. Di qui una riflessione altrettanto urgente. Mi chiedo se l’indebolimento e la polverizzazione tessuto sociale non abbia favorito la proliferazione degli istituti, delle “villette”, delle residenze sanitarie o meno verso cui avviare chi era rimasto solo o chi non aveva una rete familiare ed amicale che lo sostenesse e gli permettesse di rimanere a casa.
Ma la crisi svela come concentrare solitudini e fragilità non sia poi così positivo, utile e salubre, anzi. Volendo pensare al domani già da oggi, credo sia necessario valorizzare l’assistenza domiciliare e le convivenze tra anziani, il co-housing e le esperienze di piccole case-famiglia, i centri diurni e le reti familiari e solidali da allargare. Nell’impostazione della vita quotidiana prima del virus era scontato portare i nostri anziani in una casa di riposo. Oggi non possiamo più darlo per scontato.
Al contrario dobbiamo ripensare un futuro nuovo per la nostra società anche a partire da un nuovo modo di prendersi cura degli anziani. Papa Francesco ha spesso parlato, anche a proposito di anziani, di una triste «cultura dello scarto». Chi ha speso la vita per farci nascere, darci un’educazione e condurci verso l’esistenza merita di essere accudito nella propria casa o in un ambiente familiare e pieno di cure e attenzioni, nel tempo della vecchiaia. La crisi di questi giorni getta una luce per una nuova scelta. È tempo di cambiare, facendolo sul serio: la pletora dei decaloghi per il futuro, di ricette facili, di nuove organizzazioni da porre in campo, deve lasciare il posto a una riflessione profonda sul modello sociale e umano che intendiamo perseguire.