Nel mondo dello sport, il cronometro è l’arbitro supremo: un tempo di 9,80 secondi nei 100 metri piani non lascia spazio a dubbi, interpretazioni o favoritismi. È un dato incontrovertibile che decreta il vincitore in modo assolutamente meritocratico. Tuttavia, quando ci spostiamo dal campo di gara al contesto aziendale, il concetto di meritocrazia diventa spesso sfumato, e a volte, completamente manipolato, con gravi conseguenze per la salute mentale e fisica dei lavoratori.
All’interno delle organizzazioni, invece di essere giudicati esclusivamente sulla base di risultati tangibili, molti dipendenti si trovano a dover fare i conti con “capetti” – quei leader o manager che, più attenti a soddisfare il proprio ego che a riconoscere il merito vero, valutano le persone attraverso il filtro delle simpatie personali, delle raccomandazioni, o peggio, della capacità di blandire e compiacere. Questa manipolazione dei criteri di valutazione non solo distorce la meritocrazia, ma può anche generare un ambiente di lavoro tossico, aumentando lo stress tra i dipendenti.
Il cronometro, per sua natura, non può essere corrotto. Non ha preferenze e non fa distinzione tra chi sei o da dove vieni; misura solo la realtà. Una vita di preparazione e quattro anni di allenamento possono risolversi in una manciata di millesimi di secondo, e in quella frazione infinitesimale si gioca la differenza tra gloria e fallimento. Pensiamo agli esempi di Noah Lyles, che da settimo a metà gara ha concluso vincendo, o a Marcel Jacobs, con una delle migliori prestazioni europee di sempre. Questi atleti non possono permettersi di dipendere da altro che dalle loro performance, e proprio per questo, il loro successo è innegabile.
Ma nell’ambito aziendale, una differenza così sottile come quella di cinque centesimi di secondo potrebbe passare inosservata, essere ignorata o, peggio ancora, manipolata da chi ha il potere di farlo. Il risultato? Una meritocrazia distorta, dove il talento e l’impegno spesso vengono sacrificati sull’altare della compiacenza e dell’egocentrismo dei capetti. Questo ambiente lavorativo ingiusto può portare i dipendenti a livelli elevati di stress, ansia e frustrazione.
Lo stress da lavoro correlato è una delle principali cause di malattie professionali, con ripercussioni sia sulla salute mentale che fisica delle persone. L’incertezza sul proprio valore, l’ansia costante di dover compiacere per mantenere il proprio posto, e la frustrazione di vedere il proprio impegno e talento non riconosciuti, possono portare a burnout, depressione e altre patologie. In un contesto lavorativo manipolato, i dipendenti non solo devono lottare contro criteri di valutazione ingiusti, ma anche contro un ambiente che erode la loro salute e il loro benessere.
Gli esempi di Lyles e Jacobs ci insegnano che l’imparzialità e l’oggettività sono essenziali per un vero riconoscimento del merito. Loro sono giudicati solo per ciò che riescono a fare in quei pochi secondi di gara, mentre nel lavoro, a volte, non importa quanto si sia bravi o efficienti, perché ciò che conta davvero è chi si riesce a compiacere. E questo è il grande fallimento della meritocrazia manipolata nelle aziende di oggi, che non solo distrugge il concetto di giustizia, ma mette seriamente a rischio la salute e la vita dei lavoratori.